Il costo di non capire i dati? 175M$. L'incredibile vicenda Frank - J.P. Morgan
Quanto può costare una comprensione superficiale del mondo dei dati e cosa si può fare per evitare disastri?
Intro
C’è chi dice che il crimine non dorme mai.
E penso che gli ultimi mesi non solo confermino questa tesi, ma anzi permettano di ampliare questa frase.
Il crimine non dorme mai, ed è in grado di sfruttare sia le più recenti evoluzioni di tecnologia, dati e algoritmi, sia la superficialità di chi non sta al passo.
Su questo fronte, e specialmente nel mondo crypto, la vicenda di FTX e del suo fondatore (Sam Bankmand-Fried, o SBF per gli amici) è andata ben oltre la cerchia degli appassionati del settore. Del resto tra un buco finanziario che compete con vicende come quella di Enron o Lehman Brothers, un giovane protagonista osannato (un tempo) dalla stampa e proprietà immobiliari da sogno alle Bahamas, c’era tutto il necessario per ottenere le prime pagine dei giornali.
Questa chicca su SBF, scritta su una rivista di ampia diffusione come Time, è veramente surreale, se letta oggi.
Bankman-Fried is working to reshape the way the world sees crypto because he believes in its transformative power for good. As an effective altruist, Bankman-Fried believes crypto can help democratize financial markets and reduce poverty and corruption.
Fortunatamente, ci siamo risparmiati le puntate successive in cui si raccontava la sua tendenza a rubare ai ricchi per dare ai poveri (anche se sulla prima parte direi che si può essere d’accordo), né tantomeno fotografie in cui si mostrava la capacità del giovane di camminare sulle acque. :)
Non c’è solo FTX, e non c’è solo crypto
Come in tanti altri settori, la tendenza recente anche in ambito giornalistico è quella del winner takes all: dopo una vicenda come quella di FTX che domina su qualsiasi testata, è facile che altre storie interessanti (ed istruttive1, come vedremo) restino relegate in secondo piano.
E così ci sono delle perle che possono passare inosservate, come quella di Frank, azienda fondata alcuni anni fa da una coetanea di SBF, Charlie Javice.
Una giovane mossa dai più nobili obiettivi, come da lei stessa dichiarato:
I stand here extremely grateful, lucky, and truly really humbled before you today to have this opportunity to share my dream and passion to end poverty.
E anche lei agli onori delle cronache, come Forbes 30 under 30.
In ottima compagnia, come fatto notare da qualche osservatore con un certo humour.
Il business di Frank e l’acquisizione di J.P. Morgan
Da italiano, la situazione del debito studentesco negli Stati Uniti è surreale: pensare che qualcuno possa aprire un mutuo per finanziare i propri studi è inimmaginabile, visto il costo molto contenuto delle università nostrane.
Dico molto contenuto soprattutto in rapporto alle università americane, dove le rette possono tranquillamente arrivare a 80.000$ per anno di studio.
Qual è il risultato? Negli Stati Uniti, il totale del debito studentesco ammonta a circa 1.750 miliardi di dollari. È una cifra enorme: per dare un'idea, è pari a più del 60% del debito pubblico italiano2.
È in questo ambito che operava Frank, la startup fondata da Charlie Javice nel 2016, con l’obiettivo di aiutare gli studenti ad avere supporto finanziario a livello federale.
La storia
Partiamo dalla fine: oggi Frank non esiste più. E andando sul suo sito web, si respira aria di desolazione.
Attualmente c’è una causa in corso e ne parleremo tra un attimo.
Il punto è che non è sempre stato così!
Infatti era il 21 settembre 2021 quando J.P. Morgan, colosso che non necessita di presentazione, ratificò l’acquisizione di Frank, piattaforma di pianificazione finanziaria “usata da oltre 5 milioni di studenti” e costata la notevole cifra di 175M$. Tanti soldi, ma evidentemente ritenuti un ammontare ragionevole per costruire un rapporto duraturo con milioni di giovani.
Questa era l’homepage allora, come facilmente verificabile.
E scrollando la pagina, un punto mi ha colpito… e ha colpito probabilmente anche i dirigenti di J.P. Morgan.
La causa legale
Cosa è successo? Beh, quei 5 milioni di studenti erano in larga parte inventati, o almeno così sostengono i legali di J.P. Morgan, con tanti elementi che mi sembrano molto validi. Incredibile come, in soli 16 mesi, Frank sia passata dalle stelle alle stalle.
Consiglio l’articolo di Matt Levine su Bloomberg per chi vuole approfondire, ma qui riporto i punti fondamentali.
Email fasulle?
Chi ha una newsletter o un blog (ehm… io!) sa che non tutti i lettori apriranno una nuova email. Ma post acquisizione, una mail mandata da J.P. Morgan a 400.000 studenti registrati su Frank (scelti casualmente) è stata cliccata da 103 individui…
Un click rate dello 0,026% non è esattamente un tasso ragionevole.
Creazioni di account artificiali
È agli atti la corrispondenza tra Javice e il Director of Engineering di Frank, con la prima intenta a convincere il secondo ad utilizzare dei sistemi di generazione dati sintetici, partendo da 293.000 veri account per crearne ulteriori 4.000.000 fasulli.
Risultato: niente da fare, causa remore legali da parte dell’ingegnere. Anche perché sì, i sistemi di generazione di dati sintetici non nascono per questo genere di cose.
Il rapporto col professore e… le fatture
A fronte del rifiuto del director of engineering, Javice si è rivolta ad un professore universitario, con ottimi risultati: una lista di account fasulli ma verosimili, per il costo di 13.300$.
Peccato che la fattura riportasse esplicitamente la generazione di dati artificiali e spiegasse con ragionevole dettaglio l’attività.
Risultato: richiesta di una nuova fattura da parte di Javice, oggetto generico “analisi dati”, bonus di 4.700$ per il disturbo.
Nuova fattura di 18.000$ emessa dal celere professore in 7 minuti dalla richiesta, con tanto di “wow, grazie”.
Conclusioni
La storia va avanti, tra altri dati comprati, manipolati e integrati. E vedremo come andrà a finire con Charlie Javice, che corre il rischio di diventare la nuova Elizabeth Holmes. E il Director of Engineering, vero eroe positivo in questa situazione, che è in gran parte ignorato dalle cronache, ma ha fatto la cosa giusta3.
È facile giudicare queste vicende, a bocce ferme e con una vista esterna e inevitabilmente parziale. Due riflessioni però mi vengono spontanee.
Il mondo dei dati, a prima vista, è facile da affrontare. Nessuno può improvvisarsi cardiochirurgo, e lo stesso dovrebbe valere per data scientist o figure affini. Invece no, non è rara l’idea che in qualche maniera ci si possa arrangiare nell’uso dei dati. Non è dato sapere le competenze dei consulenti coinvolti nella due diligence e menzionati in molti articoli… sarei molto curioso di approfondire!
Non mi stupirei se questo tipo di due diligence fosse stata fatta da analisti di business senza particolari competenze a livello dati, quando probabilmente qualcuno più esperto, magari a conoscenza delle tecniche di generazione dati artificiali, avrebbe potuto subodorare la fregatura.
La seconda considerazione, un po’ più ampia, è che non è un caso se le più grandi aziende internazionali si stanno dotando di figure come il Chief Decision Scientist. Penso ad esempio a Cassie Kozyrkov in Google.
Parliamo di figure brillanti, con le competenze tipiche di un data scientist, ma orientate più a supportare decisioni strategiche che a sviluppare algoritmi e data products. È una riflessione che vale la pena di fare: espressioni non certo nuove come business intelligence o sistemi di supporto alle decisioni letteralmente fanno pensare proprio a questo! Ora hanno acquisito un’accezione principalmente tecnica, come strumenti IT.
Forse è una scelta un po’ riduttiva e da riconsiderare… per evitare una vicenda Frank 2.0!
Si può anche leggere: “e distruttive”.
Sì avete letto bene. Per chi vuole approfondire, consiglio un articolo interessante del prof. Galloway.
Poteva anche diventare un ottimo whistleblower.