Lavori (in)sensati
Come un treno in ritardo mi ha ricordato uno dei più geniali (e attuali) articoli sul mondo del lavoro
Intro
Ponte del 2 giugno 2022. Un incidente ferroviario in centro Italia crea disagi e ritardi (per qualche giorno!) su tutti i treni che percorrono il Bel Paese. Ed io mi ritrovo ad avere un’oretta imprevista nella strapiena stazione di Firenze, in attesa di un treno che mi riporti a casa.
La stanchezza si fa sentire (dopo 3 giorni al Pycon con amici e colleghi fantastici1), ma decidiamo di non perdere tempo: c’è una libreria che ci sta chiamando (con tanto di aria condizionata). Ho in testa un obiettivo, tanto banale, quanto scontato: vedere se trovo una copia del libro che ho pubblicato da un paio di mesi con Stefano Gatti. Sì, non è la più nobile e colta delle intenzioni, ma penso sia umanamente comprensibile :)
E qui le notizie positive sono due:
Il libro c’è!2
Ed è pure in ottima compagnia
Già, in qualche modo (francamente difficile da immaginare) mi sono ritrovato a soli 3 libri di distanza da David Graeber.
Una riflessione attuale sul mondo del lavoro
Si potrebbe dire tanto sull’autore di cui sopra: un antropologo statunitense noto soprattutto per le sue posizioni anarchiche e il suo ruolo in movimenti come Occupy Wall Street.
Ma non è di questo che voglio parlare.
Piuttosto, mi voglio concentrare sul suo geniale articolo del 2013, On the Phenomenon of Bullshit Jobs, in cui ho avuto la fortuna di imbattermi qualche anno fa. Già dalla scelta del titolo si può intuire che ci troviamo di fronte ad un articolo forbito e pungente… un must read per chiunque, specialmente per chi lavora da almeno 3-4 anni.
L’idea è semplice: negli anni ‘30, Keynes aveva ipotizzato che per la fine del secolo scorso la tecnologia avrebbe permesso a gran parte della popolazione di lavorare solo 15 ore a settimana, facendo aumentare il tempo a disposizione di ognuno per coltivare le proprie passioni personali. Beh, fast forward di quasi un secolo e possiamo dire che non è andata proprio così: sembra anzi che la tecnologia sia usata per permettere alle persone di lavorare sempre di più.
La spiegazione convenzionale di questo fatto è legata al consumismo: potendo scegliere tra più tempo a disposizione e più “cose”, avremmo tutti scelto la seconda opzione. Ma Graeber sostiene una tesi diversa: il tempo speso in lavori produttivi è effettivamente diminuito, ma a questi impieghi si è affiancata una porzione crescente di lavori che sarebbero sostanzialmente e profondamente inutili.
Gli aspetti più drammatici, secondo l’autore, sarebbero due:
Chi è coinvolto in questo tipo di lavori, è segretamente conscio dell’irrilevanza della propria mansione;
Anche se l’esistenza stessa di questi lavori vìola i più basilari principi del capitalismo, il fatto che questi impieghi siano retribuiti (a volte lautamente) impedisce agli sventurati lavoratori di cambiare rotta.
Di fatto Graeber illustra quello che a tutti gli effetti è un circolo vizioso, con effetti devastanti per il singolo e per la società, che ha l’unico risultato di portare questi lavori ad autosostenersi e diffondersi. Con alcuni effetti collaterali assurdi: ad esempio le lamentele della gente comune contro gli scioperi di quelle poche categorie che fanno effettivamente lavori utili!
Ma è realmente così?
L’articolo che ho riportato è ironico e tagliente, si legge in pochi minuti, e a mio avviso ha un fondo di verità.
Ma è un terreno scivoloso. Penso che ognuno di noi possa facilmente individuare dei lavori altrui che ritiene inutili (dal proprio punto di vista). Ma qui entriamo dalla porta principale nel mondo dei bias cognitivi, a cominciare da quella illusione di superiorità che pervade una gran parte della popolazione. Del resto non dimentichiamoci che il 93% delle persone ritiene di guidare meglio della media3.
Ribaltando la questione, quando riteniamo di svolgere un lavoro utile, bisogna rendersi conto che qualcuno la può pensare diversamente. E del resto Graeber evidenzia, non senza autoironia, che il suo mestiere (quello di antropologo) può sembrare a tutti gli effetti superfluo ad una larga fetta della popolazione.
Il punto vero è quindi capire se c’è qualche evidenza a supporto dalla teoria di Graeber… e incredibilmente, a distanza di 8 anni dalla pubblicazione dell’articolo e purtroppo dopo il decesso dell’autore, un gruppo di studiosi di Cambridge ha provato a quantificare il numero di lavori inutili, in un paper che sostiene che solo (?) il 5% dei lavori appartenga alla categoria.
Ecco, sono convinto che cercare di quantificare qualsiasi cosa, andando a sostenere o smontare una tesi con numeri oggettivi (frutto di ipotesi e metodologie che quasi nessuno si prende la briga di verificare) sia in realtà un lavoro insensato… ma forse ricado semplicemente nei bias cognitivi di cui sopra.
Conclusioni
Comunque la si voglia pensare, una riflessione sull’utilità del lavoro ha piena ragione d’essere. E per quanto mi riguarda, lavorare con i dati è un lavoro serio e utile, o almeno questa è la mia fortissima convinzione.
Ad esempio, quando vedo La Cultura del Dato affiancato ad un romanzo rosa su una delle principali librerie online italiane, capisco che un uso superficiale degli algoritmi può portare ad effetti surreali4.
Tornando al tema centrale dell’articolo, penso che la maggior parte di chi lavora da qualche anno si sia trovato almeno una volta a svolgere un compito che ha segretamente ritenuto inutile, o se è stato più sfortunato può essersi trovato per periodi più o meno lunghi proprio in una di queste mansioni descritte da Graeber.
O magari qualcuno può trovarsi proprio oggi in questa situazione, e allora è il caso di cambiare aria.
Ecco, si parla tanto di great resignation o big quit: che questo fenomeno sia anche un segno di una rivolta contro i lavori… del cavolo? :)
E così appassionati di codice, dati e dintorni da sacrificare volentieri un ottimo ponte per una conferenza da veri nerd!
Anche se si può discutere sulla sua collocazione.
Senza scomodare data science, statistica e affini, è ovviamente impossibile!
Il vero problema è che qualsiasi dato o algoritmo, ben oltre il consiglio di un libro, può essere usato con leggerezza (ma di questo parleremo un’altra volta).